Un’attrice, però, deve confrontarsi anche con altri sguardi. Uno è quello, temibile, del pubblico: «ho affrontato l’ennesimo specchio, composto questa volta dalle centinaia di occhi che convergono sull’azione che compio» (pp. 45-46). Solo con l’esperienza e il tempo la paura si trasforma in «carburante essenziale», in «energie positive, creative, plastiche» (p. 46), fondamentali non solo per la buona riuscita della performance ma anche per instaurare quel rapporto di scambio tra palcoscenico e platea che nel teatro è indispensabile. Un altro tipo di occhio, altrettanto spaventoso per un attore, è quello «da ciclope» della macchina da presa, a cui non si può sfuggire: l’unica soluzione è lasciarsi guardare, accettare di poter essere visti e fissati nell’attimo e rispondere sostenendo quello sguardo, attuando una vera e propria seduzione nei confronti dell’obiettivo (pp. 114-115).
La disponibilità a lasciarsi guardare e, insieme, un continuo esercizio di sguardo sul mondo dovrebbero essere accompagnati anche dalla capacità – ardua da ottenere per chi fa l’interprete – di non prendersi troppo sul serio, rinunciando cioè a qualsiasi pretesa di perfezione. Per Sonia Bergamasco è stata una «metamorfosi silenziosa ma costante che ha condotto la ragazzina biondo cenere incastonata tra le note di una sua partitura ideale a scendere a patti con la sua forma quotidiana, con i suoi modi e le tante cose buffe o ridicole che fanno di una persona quello che è» (p. 59).
Voce. L’autrice utilizza non a caso il termine ‘partitura’ poiché, come racconta, la musica è stata il «filo segreto del [suo] percorso» (p. 112). Gli anni al Conservatorio a cui si è già accennato sono stati particolarmente formativi, al di là della conoscenza musicale: «la musica era entrata nel mio lessico quotidiano in maniera prepotente sin da bambina, e aveva lavorato negli anni dentro di me, per poi manifestarsi, nel corpo, attraverso un linguaggio inatteso» (p. 5). Nel provino finale della Scuola del Piccolo Teatro, Bergamasco «solfeggia» la sua parte, manifestando già quella musicalità che poi avrebbe caratterizzato e reso unica la sua recitazione. «Orfana dello strumento» (p. 7), non le rimaneva che la sua voce: «avevo stabilito (da sola), tempo, linee melodiche e armonie […]. Avevo “tradotto” quelle parole in un alfabeto a me più familiare, le avevo avvicinate alla mia esperienza» (p. 6). Fondamentale, per un’attrice, è riuscire a «sintonizzarsi» (p. 42) con le voci degli altri, partendo da una conoscenza profonda della propria. Quella di Bergamasco, grazie a uno studio costante messo al servizio delle proprie esigenze espressive, negli anni ha subito una trasformazione profonda, in cui «le note acute su cui si attestava agli inizi sono scivolate gradualmente di tono in tono, verso il basso» (p. 43) e dove la sua risata, particolarmente sonora e squillante, è diventata «un tratto distintivo, un segno di riconoscimento, un passaporto» (p. 72). La pratica di attrice le ha permesso di «farsi strumento» (p. 22).
Corpo. Infine, lo strumento ultimo – quello che racchiude e sintetizza anche gli altri – e a cui è dedicata la maggior parte delle pagine, è protagonista di una continua indagine sul suo rapporto con l’interprete. Un corpo «sonoro» (p. 12), capace, in scena, di creare un legame anche erotico con il pubblico e di tenere insieme le «pulsioni contrapposte» alla base della recitazione: la tensione costitutiva verso la ripetizione, dunque il voler riprovare e fare meglio, e, viceversa, la noia unita all’insoddisfazione (p. 29). Per Bergamasco esibirsi davanti al pubblico difficile del carcere minorile di Milano, davanti a coloro che all’epoca erano suoi coetanei, ha rappresentato la presa di coscienza del suo corpo d’attrice: «per la prima volta mi sono vista, mi sono sentita, con precisione scientifica. Ho percepito le potenzialità di un corpo di scena – il mio – armato per la prova» (p. 25).
Se il corpo di un attore è certamente uno strumento, da addestrare, bisogna tuttavia tenere a mente di non farsi sopraffare dal rigore degli esercizi pratici a discapito dell’emotività; come ricorda l’autrice, «tutto il “prima” è funzionale solo a quell’istante» (p. 54). Per sentirsi, infatti, è necessario fidarsi anche della parte di sé più istintiva, sensoriale, e lasciare che si manifesti durante la performance. D’altra parte, anche la memoria è corporea: «trattiene tutte le informazioni, le lavora e le riconsegna di volta in volta, con una sapienza infallibile» (p. 104).
Ed è alla memoria che Sonia Bergamasco affida la conclusione della sua autobiografia: «il mestiere dell’attrice è sicuramente una professione, ma è anche qualcosa di più. Perché dà voce alle storie di tutti. Fa spazio, dentro, ai ruoli incarnati ogni giorno dalle creature più diverse. Un corpo per tutti, un testimone» (p. 133). In qualche modo l’autrice, riconoscendo al corpo dell’interprete un insito valore testimoniale, svela a chi legge il legame implicito, ma saldissimo, tra arte scenica e scrittura memoriale.