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Giovanni Calcagno, Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide
Ero tutta costruita. L’invenzione di sé impegna Betti per tutta la vita, fin dall’arrivo nella capitale...
di Stefania Rimini

Come può una delle opere letterarie più antiche rivelarsi tanto attuale? Come è possibile farla rivivere a teatro? La strada da seguire è quella che conduce alla seduzione della narrazione; una narrazione in cui la parola si fa musica, diviene canto di dolore e voce ‘universale’. L’epopea di Gilgamesh narra le vicende del potente re di Uruk. In principio molto temuto e poco amato dai suoi sudditi, Gilgamesh si mostra arrogante e assetato di potere e di piacere, tanto da rubare la verginità alle spose il giorno delle nozze. Ascoltando le preghiere degli abitanti della città, la Grande Madre Aruru, su ordine di Anu, il Padre del Cielo, plasma con un pezzo di argilla il forte Enkidu, il doppio del sovrano, l’unico in grado di fronteggiarlo e di liberare il popolo dai suoi soprusi. I due si scontrano, ma quando la lotta termina Gilgamesh e l’avversario si riconoscono amici fraterni e invincibili. Con Enkidu il sovrano perde il suo animo inquieto e colmo di collera. I due personaggi iniziano ad affrontare insieme sfide pericolose, uccidono il gigante Humbaba e il Toro Celeste; imprese che gli dei condannano, privando il re del suo amico. Enkidu muore, Gilgamesh sprofonda in un dolore indescrivibile e inizia il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Grazie al barcaiolo Urshanabi giunge al cospetto di Utanapisti – unico sopravvissuto al diluvio universale e personaggio al quale gli dei avevano concesso la vita eterna – e acquisisce consapevolezza della precarietà dell’esistenza. La vicenda, dunque, ruota intorno a un viaggio di trasformazione interiore, ai grandi interrogativi che l’uomo si pone di fronte al mistero della morte e al dolore della perdita e del lutto; sentimenti, questi, che attraversano le epoche e i confini geografici e che investono l’intera umanità.

Di recente, sono stati tre narratori d’eccezione a mettere in scena la trasposizione teatrale del poema, Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide: Giovanni Calcagno, responsabile anche della regia, Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio. I tre attori hanno dato vita a uno spettacolo costruito attraverso immagini visive, ritmiche e uditive di rara bellezza, in cui ogni frammento innesca momenti di riflessione sui grandi temi dell’esistenza. La ricerca dell’immortalità diviene infatti il pretesto per condurre un viaggio parallelo, introspettivo, sul valore dei legami umani, sul rapporto tra l’uomo e la divinità, sull’amicizia, sul nesso tra civilizzazione e libertà. Gli interpreti, inoltre, propongono tre modi diversi di narrare: diverso è il ritmo, diverso è l’utilizzo del corpo e della voce, diversi sono i ruoli. Ma proprio in questo slittamento continuo tra mondi narrativi differenti risiede la cifra espressiva dello spettacolo, caratterizzato anche da una efficace coloritura emotiva.

Giovanni Calcagno inizia lentamente, fornisce descrizioni di personaggi, narra antefatti e, preparando il pubblico a viaggiare dentro e con il racconto, genera il desiderio di sapere come si sviluppa l’azione, senza mai perdere di vista il suo ruolo di narratore; egli incarna con lucidità la voce epica del racconto.

La narrazione di Luigi Lo Cascio, invece, si attiene maggiormente al testo. Leggendo il libro che a volte tiene tra le mani, l’attore racconta il dolore di Gilgamesh per la morte dell’amico Enkidu e dà corpo alla dimensione corale del suo pianto: «Piangetelo giorno e notte, piangetelo senza sosta, senza riposo! Tu cortigiana che gli insegnasti l’amore tra gli uomini, che massaggiasti il suo corpo con gli oli più preziosi, piangilo, piangilo». Insieme alla recitazione di Lo Cascio, inoltre, è a due marionette che Calcagno affida il compito di rappresentare il tormento del protagonista. Manovrate a vista dallo stesso regista e da Pirrotta, esse emergono prima sullo sfondo come ombre e solo successivamente prendono consistenza e diventano chiaramente visibili agli spettatori. I loro movimenti accompagnano la voce narrante e restituiscono visivamente la sofferenza di Gilgamesh: alla fine le marionette giacciono a terra una sull’altra ai piedi dei tre narratori che, fermi, partecipano al dolore come in una veglia funebre.

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